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Intervista a Diego Ponzi 
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Messaggio Intervista a Diego Ponzi
Da una gentile segnalazione della Dott.ssa Emanuela Serra (Associazione sindrome di Crisponi e malattie rare):


Press-IN anno II / n. 244

La Nuova Venezia del 31-01-2010

Il mago delle cornee «Donazioni in calo serve più generosità»

MESTRE.Diego Ponzin, 49 anni, è nato in provincia di Padova, a Carrara San Giorgio (ora Due Carrare). Si è laureato in Medicina e Chirurgia all’Università di Padova, specializzandosi in Oftalmologia all’Università di Udine. Dal 1993 lavora alla Fondazione Banca degli Occhi del Veneto, di cui è divenuto direttore medico nel 1999. Dal 1997 è membro del Comitato direttivo (e dal 2004 presidente) della European Eye Bank Association. Autore di 20 lavori scientifici collabora come referee con le riviste internazionali British Journal of Ophthalmology, European Journal of Ophthamology, Cornea e Journal of the American Medical Association. E’ sposato con Anna Chiara e padre di due figli, Tommaso (11) e Alessandro (6).

di Massimo Scattolin

Poco meno di 3mila tessuti corneali raccolti, 435 tessuti di membrana amniotica distribuiti a pazienti con patologie della superficie dell’occhio, 2.021 persone che nel corso del 2009 hanno ritrovato una miglior qualità della vita grazie a un trapianto di cornea e, soprattutto, grazie a quelle 1.458 famiglie che hanno scelto di donare. E poi: 910 pazienti con malattie oculari complesse e di difficile diagnosi inviate da oculisti di ogni regione d’Italia per una consulenza, 30mila cittadini contattati. Sono questi i numeri di Fondazione Banca degli occhi del Veneto. Una «banca» medaglia d’oro al merito della sanità pubblica che non solo raccoglie cornee (quarta al mondo, per numero, dopo alcuni consorzi americani), ma è impegnata ai massimi livelli scientifici anche nel campo della ricerca sulle cellule staminali e per lo sviluppo di nuove tecniche per la chirurgia oftalmologica destinata al trapianto. E proprio per sostenere la ricerca sulle cellule staminali nelle scorse settimane, alla presenza del direttore sanitario di Fondazione Diego Ponzin, è stato presentato il Santalucia. Trecento bottiglie (60 delle quali già vendute al prezzo minimo di 100 euro l’una) di pregiato merlot donato a Fondazione dal noto vignaiolo Fausto Maculan di Breganze. Slogan dell’iniziativa: il vino fa bene alla vista.
Dottor Ponzin, è proprio così? Il vino fa bene alla vista?
«E’ uno slogan provocatorio, ma coerente. Un vino di elevato lignaggio come questo si beve poco e bene: non ci si ubriaca. Senza falsa modestia questa iniziativa è nata dall’incontro di due eccellenze: Fondazione e il signor Maculan. Ma è tutta una scusa per favorire la donazione. La ricerca costa e ha bisogno di sostentamento. E noi abbiamo progetti piuttosto ambiziosi».
A proposito di donazione. E’ vero che si registrano segnali di disaffezione?
«Intendiamoci: il Veneto dona più tessuti oculari di tutta Europa, un risultato che abbiamo ottenuto in anni di lavoro con il concorso di tante persone motivatissime. Ma è vero: da un paio d’anni registriamo segnali d’involuzione. C’è un aumento del 30 per cento delle opposizioni alla donazione. Forse in tempi di crisi la gente tende a chiudersi in se stessa, a essere meno generosa. Ecco allora che dobbiamo tornare a parlare con la gente per spiegare cosa facciamo».
Una banca raccoglie denaro, voi cornee per il trapianto. E poi?
«L’attività prevalente è la raccolta, la preparazione e distribuzione di tessuti oculari per il trapianto. C’è poi un’attività clinica di nicchia, su pazienti mandati da altri colleghi, il 50-60 per cento da fuori Regione, che hanno malattie rare, quasi sempre di origine genetica e con un impatto rilevante sulla vista. E la ricerca è molto orientata alla terapia. Non è ricerca pura, di base; all’orizzonte c’è sempre il paziente».
Lei ha cominciato quest’avventura nel 1993, in una stanzetta dell’Umberto I. Ora siete in questo stupendo edificio disegnato dall’architetto Ambasz.
Immagino sia cambiato molto da allora.
«Molto? E’ cambiato tutto. Mi ritengo estremamente fortunato, in questi anni mi pare di aver cambiato lavoro 10 volte. Allora, tanto per dire, non c’era la legge sui trapianti, approvata nel 1999. Importantissima, uno spartiacque fondamentale. Ma una decisione fondamentale è stata quella di perseguire l’accreditamento americano. Lì il sistema di eye banking ha 50 anni. Qui nessuno era certificato. Affrontare questa sfida significava farsi ispezionare in un’altra lingua, strutturare il sistema, adottare procedure bilingue. Abbiamo lavorato un’intera estate per essere pronti. Ma ce l’abbiamo fatta».
E ora c’è un’altra sfida all’orizzonte. La cell factory, la produzione di cellule per l’utilizzo in sala operatoria.
«Già, un’altra bella sfida ottenere l’autorizzazione dell’Aifa. E’ una certificazione estremamente laboriosa perchè rientriamo in una logica di produzione farmaceutica, industriale, ma allo stesso tempo operiamo con materiale “su misura”. Per intenderci noi produrremo cellule come si producono aspirine. Ma una cosa è avere un prodotto standardizzato, tutte pastiglie uguali. Altra cosa è produrre cellule per un solo individuo. Insomma, un’operazione complessa. Contiamo di ottenere il via libera entro fine anno».
Voi avete grande attenzione per il paziente malato. Come vi comportate con i famigliari dei donatori?
«Abbiamo lo stesso approccio nei confronti del trapianto e della donazione. Il buon trapianto deve lasciare il paziente contento, facciamo di tutto per offrire al chirurgo il miglior tessuto possibile. Così per chi dona. La buona donazione lascia i famigliari sollevati da questo atto. Noi abbiamo del personale dedicato alla relazione con i famigliari dei donatori. In un anno riceviamo un centinaio di telefonate e spediamo 1.600 lettere. Facciamo conoscere a chi è interessato l’esito della donazione. Accogliamo tutti coloro che vogliono venire a visitare la nostra sede».
E poi ci sono le occasioni d’incontro pubbliche.
«E’ il momento in cui abbiamo l’opportunità di dire grazie ai famigliari dei nostri donatori. Lo facciamo con un concerto, un evento per così dire leggero. A Mestre l’incontro al teatro Toniolo è ormai una tradizione. Poi cerchiamo di essere presenti nei vari territori. Il 22 gennaio scorso per ricordare i donatori del Veneto orientale è stato organizzato all’auditorium Da Vinci di San Donà un concerto a cui hanno partecipato 300 persone».
I vostri ricercatori pubblicano regolarmente sulle più prestigiose riviste internazionali.
«Beh, questa è una delle cose che rende questo posto un po’ speciale. Noi visitiamo dei pazienti con patologie gravi e rare e lavoriamo in stretta sinergia con ricercatori piuttosto bravi, grazie ai quali il nostro Centro regionale di ricerca sulle cellule staminali epiteliali ha raggiunto livelli di eccellenza nel panorama internazionale. Sul British Journal of Ophthalmology, tanto per citarne uno dei tanti, è stato pubblicato un nuovo metodo diagnostico per misurare l’alterazione della superficie oculare. Un metodo che consente una diagnosi più accurata con tecniche più dolci».
Qual è il suo ricordo del professor Rama?
«Impossibile ricordarne solo uno. Ricordo in maniera particolare l’ultimo incontro, l’ultimo colloquio nel suo giardino sul lago di Garda. Per il resto basti dire che stiamo ancora lavorando sulla base di cose che aveva intravisto lui. Era uno di quei personaggi visionari, cocciuti, sempre orientati al fare. E quando hai a che fare con questi personaggi spesso accadono cose che vanno al di là delle loro stesse visioni».
Usciamo per un momento dall’ambito professionale. Che cosa fa nel tempo libero, immagino poco, il direttore di
Fondazione Banca degli occhi?
«Coltivo i miei hobby, la scrittura e la musica».
Più parole o note?
«Ora diciamo che scrivo perchè ho poco tempo per suonare. Con i Dimarte, una band di amici, ho suonato il basso elettrico per vent’anni. Ma negli ultimi anni ho scoperto che mi piace inventare storie. Ho pubblicato una raccolta di poesie e racconti. Ora sto tentando di scrivere un noir».


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Non avrei fatto gli errori di mio figlio
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